“Tiriamola via”.
“Cosa? La panchina? La panchina di cemento fissata a terra?”
“Sì, tiriamola via. Se tu l’afferri da un lato e io dall’altro, se ci facciamo gonfiare le vene del collo, se non ci mettiamo a pensare a cosa stiamo facendo, io dico che ce la facciamo”.
“Perché proprio adesso, perché? È un giorno come un altro, un pomeriggio come un altro. E quella panchina è lì da sempre, da quando ci si sedeva sopra, sia insieme, sia da soli”.
“L’abbiamo scaldata abbastanza, coi nostri culi, col nostro essere sognatori, negli inverni che ci congelavano il fiato, senza farci sconfiggere. Tiriamola via, ti dico. Mettiti di fronte a me, ficca le mani sotto, così, vedi, come faccio io, forza adesso, alzala!”
“Non ci riesco! E’ troppo pesante e fa troppo parte. E io non sono pronta. C’era del buono nel nostro starcene seduti qui, ci siamo anche tanto amati e toccati. Proprio qui, qui sopra”.
“Non posso farcela da solo, lo sai”.
“Lo so, ma. Io”.
Ognuno cova un ricordo che è come una panchina di pietra, dentro un parco vuoto, in inverno.
Ti ci accomodi sopra e ti senti al sicuro, non ti accorgi del freddo che inizia a mangiarti da dentro, salendo lungo la schiena.
Stai lì, con le gambe a squadra e pensi che sia una giornata come un’altra.
Una giornata bellissima.
serve una mano?
Ovvio che sì.