Schiacciai la faccia contro il muro perché era da lì che provenivano i singhiozzi. All’inizio pensai fossero di un bambino, ma erano troppo maturi e pieni di vetro perché potesse essere quel tipo di pianto. L’intercapedine s’era colmata di un’eco straziante e la sua vibrazione si aggrappava al mio timpano, alla cartilagine del mio orecchio, alla parte molle della mia guancia. Origliavo e capii che era una donna. Potevo immaginare con esattezza il ritmo frenetico del suo torace in quel momento e le aderenze nella sua gola. Ho spinto più forte la metà del mio volto addosso alla parete, come se volessi oltrepassarla, smaterializzarmi da casa mia e apparire in quella della mia simile, dirle qualcosa. Poi d’un tratto smise. E io visualizzai il rito del cercare un fazzoletto di carta, appallottolarlo con violenza e gettarlo nel secchio, nascondere le prove, andare in bagno, sciacquarsi con acqua gelida, valutare il rossore diffuso, toccarsi le borse sotto gli occhi, stimare quanto liquido fosse rimasto intrappolato lì, nel disperato tentativo di piantarla, chiedersi quando sarebbero state svuotate nuovamente quelle sacche ricolme del peccato veniale d’essere sensibili, d’essere vivi. Feci un passo indietro per rispetto. Il rispetto che si deve anche a coloro che non ci notano.
Grazie, meraviglioso spaccato di realtà. E poi c’è il rispetto di cui evidentemente conosci bene il valore anche mentre accarezzi il dolore, svelandolo.
Ma grazie a te per queste parole.
Grazie a te per la sensibilità.