Chiudi la porta a chiave.
È un ordine che ho sempre distinto nettamente in mezzo alle altre voci nella mia testa.
Una di loro cantilenava: “lascia la luce accesa, anche se il lampione nel cortile illumina uno spicchio di camera, quello di fronte al letto, non credo che basti”.
(E infatti non bastava a trascorrere tutta la notte, quando il suo centro diventava più forte e intenso. Il centro della notte).
Un’altra voce bisbigliava: “hai messo nello zaino il libro di storia? Domani c’è storia”.
Un’altra s’affannava ad articolare suoni riempitivi, senza, però riuscire a dirmi nulla.
Era rumorosa, ma muta. Vile.
La disprezzavo per questa sua totale incapacità di comunicarmi alcunché.
Poi c’era lei: chiudi la porta a chiave.
Una porta color legno chiaro, con alcuni adesivi attaccati all’interno e qualche parola feroce scritta di fretta col pennarello indelebile.
Le parole dei giovani, ma non troppo. Gli intenti per il futuro: libertà, pace, musica.
La chiave infilata nella toppa era squadrata e consumata. Non era una chiave di qualità, era una ferraglia pronta a incepparsi, a essere inutile, a confermarti che era il caso di avere paura.
La giravo con eccessiva lentezza e precisione, ne temevo rumore, esito, significato.
E se mi avessero chiesto perché mi chiudevo a chiave? Se se ne fossero accorti? Come avrei spiegato la questione della voce nella mia testa? Come avrei spiegato cosa voleva dire la notte per me, in quella casa, a quell’età?
Quando ero fortunata, dormivo anche 4 o 5 ore.
Quando ero fortunata, la porta si chiudeva e la riaprivo il giorno dopo senza troppo baccano.
Quando ero fortunata, il professore di storia non mi interrogava.
Dopo una vita, io sogno ancora quella mia porta e quella mia chiave con le stesse paure e quando sono fortunato mi sveglio.
Ciao Chiara
Staystrong robi.
Dopo quanti atti di coraggio si vince la bambolina?