Restai in disparte per tutto il tempo, il che risultava strano considerando che la festa era per me. La settimana prima avevo staccato la testa del mio pupazzo preferito e tiracchiavo con le dita i fili rimasti penzoloni. Dovevo stirarli perfettamente per essere davvero in gamba ai miei occhi.
Il problema di cosa facessi e di quanto risultassi antipatica, naturalmente, era tutto degli adulti: gli altri bambini non si erano neanche accorti della mia esistenza. Non sapevano chi fossi e non gli interessava.
Interessanti erano le mie montagne di giocattoli e lo spazio che avevano per rincorrersi e urlare come non avrebbero mai fatto in casa loro. Erano dei bambini e facevano il loro lavoro, non potevo biasimarli.
“Guarda cosa ti ha portato la zia, dì grazie!”, insomma, c’era questa cosa del dire grazie. Dire grazie perché è educato, dire grazie perché va fatto, dire grazie perché ti hanno portato una cosa che tu non hai chiesto e di cui non ti frega niente, però devi dire grazie e vedi di sbrigarti prima che parta un ceffone.
Per evitarmi la seccatura di questo teatrino, iniziai a dire grazie a tutti. Così, a caso. Mi avvicinavo alle persone, faccia inespressiva e dicevo: “grazie”. Indistintamente. Adulti, bambini, la mia famiglia. Un grazie dietro l’altro. Convinti, ben pronunciati, seppure decontestualizzati.
All’inizio lo trovarono delizioso: “eh, si è resa conto che questo è un bel momento per lei, una bella festa, piena di tanti amici e affetti che sono qui per augurarle buon compleanno…”, ma per me non era un bel momento, quelle persone non erano lì per quel motivo, ma per farsi vedere dai miei genitori, per scroccare un po’ di cibo e per far correre i loro orridi figli tra le mie cose.
I grazie a raffica cercavano solo di alleviare il mio disagio e la mia umiliazione.
Quando si accorsero che, sostanzialmente, li stavo prendendo per il culo, ci fu un attimo di gelo e di imbarazzo collettivo. Mio padre prese a sudare freddo e si allontanò in balcone, mia madre tentò di ipnotizzare gli ospiti aggiungendo dolci e biscotti nei contenitori sul tavolo.
Partirono ipotesi e tentativi di giustificazioni: “io davvero non so cosa le passi per la testa, davvero non so, non so…”.
Mi passava che il grazie era una cosa seria. Che nessuno avrebbe dovuto usarlo come merce di scambio dentro una socialità di cartapesta. Avrei tanto voluto ci fosse un’altra parola.
Vi prego, insegnatemi un’altra parola e sporchiamo quella, se è tanto necessario.
Non lo sapevo ancora. Non sapevo avanzare queste richieste. Ricordo solo che, d’un tratto, la testa del pupazzo iniziò a mancarmi. Abbandonai la festa e la andai a cercare.