La questione è semplice: ma se nell’altro vedi te stesso, come diavolo fa a piacerti?
No, perché è fondamentale una sensibilità affine, pare. Una qualche forma di riconoscimento, di somiglianza, di sovrapposizione, di “maddai, anche tu sei degli anni ’60!”. Ed è vero, è vero perché solo un simile presupposto ti consente di non dover spiegare mai più di tanto, che è così volgare stare lì a spiegare, facendo godere i tuoi muscoli facciali del più vero e convinto ‘lo sai, no?”. Ed è così bello e liberatorio ed esageratamente comodo. Un viaggio alla scoperta di un divano, praticamente. E tu lo guardi, l’altro, e riesci a cogliere perfino il riverbero di quella volta in cui, in terza elementare, ti sei messa a piangere perché la maestra non t’ha scritto che eri bravissima, a penna rossa, sul quaderno. L’altro ti guarda e ti vede. E, incredibilmente, gli piace quello che sei, con gli occhi ancora gonfi per colpa di quella maestra stronza. Ma siamo sicuri di voler essere visti così tanto? Chè quando io penso alla verità, su di me, mi viene da vomitare, poi la abbraccio forte perché mentire sempre è sfiancante. E le affinità, sì, esistono, ma forse dovrebbero essere pericolosamente parziali, per sopravvivere. Sacrificare un pezzetto di complicità assoluta per mantenere inalterato quel prezioso senso di perenne irrisolto, quello che cresce sulla roccia più arida del non vedersi, del non sapersi, e si mantiene così, teso e concentrato verso l’interno, mentre il resto del mondo resta in balìa di se stesso, e non sa farsi neanche le domande giuste, su quei due, perché davvero li capisce. Si limita a osservarli di schiena, mentre si allontanano.